Dal 24 febbraio 2022, l’attitudine della Santa Sede circa l’offensiva russa in Ucraina suscita interrogativi e incomprensioni, poiché la Russia non è mai stata apertamente denunciata da papa Francesco. Eppure questo stile s’iscrive in un’antica tradizione della diplomazia vaticana, che spesso è stata la sola istanza a mantenere canali aperti con l’insieme degli attori dei conflitti internazionali. i.Media incrocia gli sguardi tre specialisti internazionali del papato per identificare le linee direttrici della diplomazia pontificia a partire dalla Prima Guerra Mondiale.
«Quando una nazione è aggredita, essa ha tutto il diritto di difendersi», spiega Frédéric le Moal, storico e autore di un libro sul legame di Pio XII con la Francia in occasione della sua elezione, nel 1939. Egli osserva che l’espressione “guerra giusta”, che nel corso dei secoli è stata soggetta a un lungo sviluppo dottrinale nel corso dei secoli, risponde anzitutto a un obiettivo di “legittima difesa”.
Per quanto riguarda la resistenza ucraina, egli è certo che si tratti «pienamente» di un caso di legittima difesa, ma che incoraggiare un aiuto militare diretto potrebbe condurre a una posizione di «co-belligeranza». Questa situazione darebbe a Vladimir Putin «il pretesto per una politica ancora più aggressiva» nei confronti dell’Occidente. «Si tratta di un equilibrio molto delicato, molto difficile da trovare e molto pericoloso», osserva lo storico.
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Proprio come Pio XII e gli altri predecessori, papa Francesco sa che
parole troppo brutali contro il nemico possono avere conseguenze per i cristiani. Così lo scopo della diplomazia vaticana è di noi gettare mai benzina sul fuoco.
Evitare ingranaggi mortiferi capaci di condurre a un conflitto generalizzato costituisce infatti una preoccupazione fondamentale dei papi che si sono avvicendati nella Storia.
Nel 1939 è stato rimproverato a Pio XII di non aver denunciato con chiarezza l’aggressione tedesca contro la Polonia. Frédéric le Moal ricorda che il Papa regnante durante la Seconda Guerra Mondiale ha sempre conservato «una straordinaria prudenza» nei suoi interventi. Lo storico ravvisa delle analogie con l’attitudine di papa Francesco riguardo all’islamismo e al Cremlino.
Per di più, lo stabilimento di relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e la Russia – avvenuto sotto il pontificato di Benedetto XVI in una dinamica di riavvicinamento col mondo ortodosso – rende difficile ogni critica frontale esplicitamente riferita a Vladimir Putin. «È possibile che papa Francesco stia attento a non rompere questo equilibrio con la Russia», precisa lo storico.
Parlare con tutti, anche con le potenze violente
Frédéric le Moal ricorda che il realismo della diplomazia del Vaticano porta quest’ultima a «parlare con tutti, anche con le persone che possono apparire veramente brutali, perfino demoniache».
E così a Damasco la nunziatura non è mai stata chiusa, durante la guerra civile, malgrado la partenza di gran parte del corpo diplomatico. Questa strategia conferisce al papato «possibilità di intervento, in particolare in funzione di arbitraggio».
La Santa Sede si è dunque ritrovata al centro di numerose mediazioni, dalla Guerra dei Cent’anni fino ad eventi più recenti, come ad esempio la ripresa delle relazioni fra Cuba e gli Stati Uniti nel 2014.
Paradossalmente, il mondo secolarizzato contemporaneo appare oggi più ricettivo ai rapporti della diplomazia pontificia di quanto lo fosse l’Europa cosiddetta cristiana dell’inizio del XX secolo. Il ristabilimento della credibilità della Santa Sede è stato frutto di diversi decenni di sforzi, dopo un periodo di discredito dell’istituzione pontificia presso le cancellerie occidentali.
Durante la prima guerra mondiale, il papato visse un declino della propria aura internazionale in ragione di divergenze fra papa Benedetto XV e il Segretario di Stato, ricorda lo storico Marcel Launay, autore di una biografia dedicata al pontefice regnante fra il 1914 e il 1922.
In questo contesto caotico fra le nazioni europee, il cardinale Pietro Gasparri era favorevole alla «neutralità assoluta, per non mettersi alle spalle alcuna nazione, perché per il papato è un modo di ricercare la pace», senza prendere posizione fra i punti di vista dei belligeranti.
Benedetto XV, al contrario, riteneva di poter «interferire per cercare di aggiustare le cose in nome di una diplomazia che sarebbe quella della pace». Spiegando che «ad ogni modo la guerra è condannabile», avrebbe così fatto «24 interventi in favore della pace e della riconciliazione».
Mano a mano che le battaglie andavano avanti, però, «il papato si espose a critiche per la propria attitudine di apparente neutralità», ricorda Marcel Launay. In questo contesto agitato, i francesi definirono Benedetto XV “papa crucco”, e il generale tedesco Erich Ludendorff lo considerava al contrario un “papa francofilo”.
Nell’enciclica Ad beatissimi apostolorum principis, «fin dall’inizio del pontificato disse: “Bisogna ricercare la pace, la guerra è odiosa”», ricorda lo storico. Mano a mano che il pontificato evolveva, «alla fine prevalse la posizione di Benedetto XV su quella di Gasparri».
Nell’agosto del 1917 Benedetto XV diffuse l’intervento più importante del pontificato con la nota che egli indirizzava a tutte le nazioni invitandole a «ricercare la pace mediante il disarmo». Questa nota, mal ricevuta e mal compresa, sarebbe valsa alla Santa Sede l’esclusione dai negoziati dei trattati di pace del 1919, ricorda Marcel Launay.
Nei decenni successivi, la diplomazia pontificia avrebbe progressivamente modificato il proprio centro di gravità. Negli anni 1930 e 1940, Pio XII ebbe per preoccupazione fondamentale l’arginare la persecuzione dei cattolici da parte di Hitler, in Germania come nei Paesi occupati, nonché da parte del regime sovietico.
Sotto i pontificati seguenti, però, si diede un cambiamento di prospettiva. Rileva Frédéric le Moal:
La Chiesa si volle “esperta in umanità”, dunque non si limitò più alla difesa dei cattolici, ma vegliò davvero sul rispetto della giustizia nei confronti di tutti gli esseri umani, nonché al ristabilimento della pace.
Il giornalista Bernard Lecomte, che ha coperto in particolare il pontificato di Giovanni Paolo II ed effettuato numerosi reportages in Europa dell’Est, sottolinea il «tornante importante» avviato fin dal pontificato di Giovanni XXIII, in particolare con la sua enciclica Pacem in terris.
All’inizio degli anni 1960, il “Papa buono” sorprese e scioccò una parte dei cattolici con i suoi gesti di distensione verso l’URSS, che contribuirono ad allontanare lo spettro di una guerra atomica. Il giornalista spiega che i contatti di Giovanni XXIII con Chruščëv «trovarono un punto di ricaduta durante la crisi dei missili di Cuba», che era coincisa con la settimana di apertura del Concilio.
Sollecitato dall’entourage di Kennedy, il papa italiano intervenne allora con successo presso il leader sovietico, il quale disse:
Giovanni XXIII e io ci siamo ben intesi, perché siamo tutti e due di origine contadina.
«C’era dunque una sorta di relazione personale, cosa piuttosto sorprendente», rileva Bernard Lecomte.
Sarebbe poi seguito il grido di Paolo VI – «Mai più la guerra! Mai più la guerra!» – all’assemblea dell’ONU nel 1965. E ciononostante il suo pontificato fu segnato dai conflitti del Vietnam e del Biafra. Fu pure l’inizio dell’Ostpolitik vaticana, «una politica dei piccoli passi e di compromessi con i regimi comunisti – che il giornalista ritiene – non tra i periodi più belli per la Chiesa».
Che ci fa la Santa Sede nelle Nazioni Unite?
Il concetto di nazione legittimato da Giovanni Paolo II
Eletto nel 1978, Giovanni Paolo II avrebbe assunto un’altra strategia, valorizzando la difesa della nazione polacca a fronte della minaccia sovietica, come dimostra «il suo sostegno a Solidarność, ai dissidenti», analizza Lecomte.
Il papa polacco avrebbe proseguito con questa logica all’inizio degli anni 1990 assumendo le parti delle popolazioni balcaniche desiderose di emanciparsi dal regime di Belgrado – sottolinea lo storico. E prosegue, il biografo di Wojtyła:
Le indipendenze della Croazia e della Slovenia sono state rapidissimamente riconosciute dalla Santa Sede, anche prima dei Paesi della Comunità europea. Si trattava di due nazioni cattoliche per le quali Giovanni Paolo II aveva un affetto particolare, come pure per tutte le comunità cattoliche dell’Est.
Il sostegno del Papa, rapido ed esplicito, sarebbe stato criticato in occasione delle lotte fratricide che avrebbero dilaniato i paesi della ex Jugoslavia. La difesa di una popolazione oppressa, però, anche mediante la resistenza armata, era legittima agli occhi di Giovanni Paolo II: «Quando si è attaccati dai carri – sottolinea Lecomte – si risponde con missili anti-carro. A ogni situazione corrispondono risposte specifiche».
Nel suo discorso del 2004 in Normandia, il cardinal Ratzinger, rappresentando Giovanni Paolo II per le commemorazioni del 6 giugno, aveva sottolineato che lo sbarco alleato era una necessità morale e mostrava «il carattere insostenibile del pacifismo assoluto».
«Chiaramente lo sbarco in Normandia – ironizza Lecomte – non si poteva fare in monopattino», e lo storico osserva la piena convergenza fra il papa polacco e il suo successore tedesco, eletto 60 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Successi e scacchi apparenti di una diplomazia del lungo periodo
Sul piano degli sforzi diplomatici, l’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II era stato marcato dal successo della sua mediazione nella questione del canale di Beagle, una zona sull’estremità meridionale dell’America Latina che diventava caso di scontro frontaliere. «Egli non voleva lasciare che due nazioni cattoliche come l’Argentina e il Cile si facessero la guerra», ricorda Lecomte sottolineando l’efficacia della mediazione condotta dai nunzî inviati dal Papa, e che all’inizio degli anni 1980 sarebbe sfociata in un trattato di pace.
La fine del pontificato sarebbe stata più amara: l’immensa aura internazionale di Giovanni Paolo II non gli avrebbe impedito di vivere amare delusioni. Il Papa conobbe un «fallimento totale» durante l’offensiva americana dell’Iraq, afferma il suo biografo. Si era «molto adoperato» inviando il cardinale Pio Laghi presso George W. Bush e il cardinal Roger Etchegaray presso Saddam Hussein, e «tutto questo non è servito a niente»:
Non è che perché la diplomazia vaticana si applica a un caso questo viene sciolto felicemente…
L’attitudine di Giovanni Paolo II ha tuttavia portato i suoi frutti, sul lungo termine, nella percezione della figura del Papa per la popolazione irachena. Bernard Lecomte riconosce che è «piuttosto probabile» che il successo della visita di papa Francesco in Iraq, nel 2021, sia stato legato all’attenzione costante della Santa Sede per la popolazione irachena, anche quando il Paese era un paria sulla scena internazionale.
Malgrado i fallimenti apparenti riguardo a un’attualità traumatizzante e violenta, la perseveranza della diplomazia pontificia e l’attenzione fedele dei papi per le popolazioni martirizzate dalla guerra possono dunque porre atti preziosi per ricucire società dilaniate e ritessere la pace nel lungo periodo.